
Claudia Ottino, vice-presidente Frassati dal 2014, è fra le persone che maggiormente hanno contribuito a traghettare la Cooperativa nel presente, garantendo il non semplice equilibrio fra fedeltà alla tradizione e capacità di rinnovarsi a livello organizzativo e progettuale. La specificità attuale del suo ruolo è quella di occuparsi della risorsa in assoluto più centrale nel mondo della cooperazione sociale: le risorse umane. Le abbiamo fatto alcune domande per ricostruire la sua storia professionale e anche la storia della nostra Cooperativa.
Claudia, raccontaci il tuo arrivo in Frassati.
Sono arrivata nel luglio del 1990, con alle spalle un diploma magistrale, studi in psicologia, pedagogia e sulla disabilità,
qualche esperienza di lavoro sociale e un soggiorno estremamente formativo presso un’associazione francese attiva nell’ambito dell’infanzia e adolescenza problematica. Da quell’avventura oltre confine mi ero portata a casa la consapevolezza di quanto poco ancora in Italia fossero valorizzate le professioni sociali. Ma anche la determinazione a trovare un contesto adatto dove mettere a frutto la mia passione per quel tipo di lavoro. In Frassati mi sono sentita subito a casa. Già in fase di selezione gli aspetti motivazionali erano messi al centro.
L’allora Presidente Amelia Argenta spiegava bene che il senso dell’essere lavoratori e soci non era esclusivamente pecuniario, ma richiedeva uno sforzo di riconoscimento. Con il vantaggio che il lavoratore sarebbe stato riconosciuto nelle sue doti e competenze. A me è capitato esattamente questo.
Primo incarico?
Educatrice in una comunità per adolescenti maschi, con uno staff tutto al maschile. La sede era in via Borgosesia 1, si trattava di una delle prime comunità per minori della Frassati, attiva dal 1981. Un ambiente ostico ma bellissimo. In quanto unica donna, mi era stato assegnato in automatico il ruolo di “angelo del focolare”. Per il quale mi sentivo davvero poco tagliata. Nel tempo feci di tutto per ritagliarmi un’identità professionale diversa, alla pari con quella maschile. Oggi sembra preistoria, eppure… La comunità allora era un vero e proprio presidio territoriale. Insieme ai ragazzi cercava di seguire le loro famiglie e di tamponare le fragilità del contesto, figlie di povertà materiali e culturali profonde. Tutto questo era molto stimolante, ma ci poneva anche di fronte a situazioni di ostilità. Per questo non fu del tutto una sorpresa quando, il 31 dicembre 1991, la comunità, per fortuna vuota per via delle feste, subì un incendio doloso.
Che succede a quel punto?
Che ci trasferiamo presso la sede di Strada della Pellerina, dovendoci adattare a spazi molto più stretti e meno funzionali.

Una piccola vittoria personale!
Preferisco vederla come una piccola ma preziosa svolta per la Cooperativa. Che l’abbia facilitata io è secondario. Certo, quello è stato il momento in cui ho preso coscienza che potevo essere anche altro, oltre a un’educatrice. Era del resto un periodo di grande fermento, in cui l’identità della Cooperativa era in trasformazione. C’era un attivo dibattito interno sulle scelte, una tensione fra gli aspetti motivazionali e quelli professionali, la sensazione di doversi dare una fisionomia più chiara, che ci rendesse sempre più “Frassati” anziché “una cooperativa fra le altre”. La crescita è sempre figlia di conflitto ed è allora che si sono poste, dapprima informalmente poi in maniera più codificata, le basi per diventare ciò che siamo adesso. Io in quegli anni ero diventata referente di un’altra comunità per minori, e in seguito coordinatrice di tutta l’area. Fino a quel momento ogni servizio agiva in autonomia, vincolato soltanto alle regole del proprio appalto. Ma questo creava disuguaglianze inammissibili fra i lavoratori dei diversi progetti e anche difficoltà a garantire uniformità di servizio per gli utenti.
Insomma, esisteva una Frassati di nome, ma era parcellizzata nei fatti. Un limite via via più evidente.
Come porre rimedio?
Fondammo un “Gruppo di incontro” fra educatori, per coordinarci su questioni spicciole e darci una mano negli aspetti pratici del lavoro. Ma ben presto fu chiaro che dovevano e potevano entrare in gioco anche le questioni organizzative, per far sì che le peculiarità vantaggiose di ogni appalto, così come le innovazioni studiate nei singoli servizi, avessero una ricaduta diffusa su tutta la Cooperativa. La nascita di un coordinamento formale fu in qualche modo forzata attraverso questa prima fase di coordinamento de facto, e portò a una più equa distribuzione delle risorse, alla condivisione degli operatori fra i servizi e alla costruzione condivisa di nuove competenze.
Nel 1997 entri nel Consiglio di Amministrazione della Cooperativa, giusto?
Esatto. Una decisione difficile perché, quando mi venne proposto, ero in attesa di mio figlio. Ma sentii che potevo assumermi quella responsabilità. In quel momento si andava chiarendo la struttura della Cooperativa. Si iniziava a capire che lavorare bene non poteva essere soltanto un’attitudine dell’operatore, ma era una necessità per tutti. Perché da un buon lavoro dei singoli sarebbe discesa una buona reputazione per il servizio, capace di proiettarsi anche sugli altri servizi e poi sulla Cooperativa intera.
La qualità del lavoro diventa da quel momento il tuo “pallino”, vero?
In realtà lo era stata fin da subito. Ma ormai in gioco non c’era più soltanto un discorso di motivazione personale e autovalutazione, perché nel tempo Amelia Argenta mi aveva sempre più coinvolta nella selezione del personale.
Quello che è oggi il tuo ruolo preminente. Ma come ti sei avviata verso questa specializzazione?
Amelia mi aveva appunto inserita nei colloqui di selezione, che allora si facevano in gruppo: un gruppo di operatori con un gruppo di candidati. Era un metodo valido, perché consentiva di far emergere subito quelle che oggi si chiamano “soft skills”: le doti umane oltre che professionali. E la capacità di interagire appunto dentro a un gruppo, aspetto fondamentale per chi è destinato a far parte di un’équipe di lavoro. Ci si prendeva anche ampio spazio per parlare del senso della cooperazione, degli aspetti motivazionali, e poi si faceva sintesi delle sensazioni che ognuno di noi aveva avuto durante la chiacchierata collettiva. Quando qualcuno propose di introdurre la figura del selezionatore unico con somministrazione di test attitudinali all’interno di colloqui individuali, fui fra quelli che si opposero con maggiore convinzione. Così finii per “vincere” l’incarico di organizzare le ricerche di personale. E decisi di investire in formazione su quello specifico ambito, sostenuta dalla Cooperativa.

Quali sono stati i progressi di quel periodo?
Molti, a mio avviso. Era bello avere del tempo da dedicare a incontrare le persone, provare a trasmettere loro lo spirito della Cooperativa e individuare fra i candidati quelli che sembravano più affini. Costruire un senso di adesione e riconoscimento. Inoltre, si mise al centro il tema degli stipendi, delle garanzie da offrire ai lavoratori, perché se chiedi un investimento di fiducia, lo devi saper ripagare. Io curai l’aggancio ai coordinamenti di categoria, ad esempio il CNCM (Coordinamento Nazionale delle Comunità per Minori), che, oltre ad avere risorse proprie,
consentiva di costruire relazioni interessanti e formarsi sul campo facendo esperienza di contesti e modi di lavorare diversi.
La tua professionalità cresce di pari passo con la complessità della Frassati.
Vero. E io mi sento sempre più legata ai destini della Cooperativa. In quel periodo l’obiettivo della salute economica viene garantito anche attraverso una progressiva diversificazione dei servizi e un ampliamento dei committenti: non più solo il pubblico ma anche i privati. Il tutto in una logica certamente più “aziendale”, ma senza tagliare le nostre solide radici nello spirito cooperativo. Si inizia a guardare ai modelli esteri per trovare ispirazione, anche a livello di “idealità”. C’è da portare a compimento la trasformazione di Frassati, che dalla fase di gestione “carismatica” degli inizi è passata attraverso una fase “tecnica” e deve arrivare alla fase “cooperativa” vera a propria. Di nuovo, non si tratta di un salto in avanti improvviso. C’è tutto un periodo di fermento, di discussioni in cui le persone più motivate si interrogano sul futuro della Cooperativa; emergono le varie anime, le varie opzioni. Quando è il momento di dare una svolta, non ci si trova impreparati. A partire dal 2014 iniziano gli investimenti finalizzati a “prodursi il lavoro”. Dopo la crisi finanziaria degli anni precedenti era necessario attrezzarsi per sopportare le tempeste. Non si può più aspettare che il pubblico porti dei bisogni a cui rispondere: bisogna andare noi stessi alla ricerca di quei bisogni, anticiparli, studiare soluzioni innovative.
Così, siamo quasi arrivati all’oggi.
Un oggi che fa i conti con l’esperienza durissima della pandemia e una consapevolezza ancora più marcata dalle difficoltà di sopravvivere senza una revisione continua delle strategie di azione. Le risorse sono sempre più scarse e le gare al massimo ribasso rischiano di penalizzare la qualità dei servizi offerti, oltre che le professioni coinvolte.
Per fare proposte nuove servono investimenti capaci di sfidare l’incertezza senza intaccare il delicato equilibrio con la liquidità e quindi l’affidabilità della Cooperativa, anche nei confronti dei lavoratori. La riorganizzazione voluta nel 2021 dall’attuale CdA è servita a creare una “classe dirigente” che accompagni Frassati ad affrontare queste prove. Ma teniamo conto che quasi tutte le persone ingaggiate in questo processo arrivano, proprio come me, dalla “gavetta”, cioè dall’operatività quotidiana.

Conoscono, non solo in astratto, i nodi del lavoro “sul campo” e ne tengono conto in qualsiasi decisione.
Oltre che vice-presidente, sei diventata direttore delle risorse umane. Un ruolo nel quale ti senti a casa?
Beh, certo. Occuparmi delle persone è qualcosa che faccio da sempre, qui dentro. Ma oggi ho una responsabilità maggiore. Per affrontarla, come è mia abitudine, ho puntato sulla formazione. E poi c’è stato tutto un altro capitolo da chiudere, quello con l’area minori che ho lasciato in ottime mani ma della quale, confesso, sento a volte nostalgia.
Cosa significa oggi fare selezione del personale?
Significa purtroppo in molti casi… rinunciare a farla. Il mondo è molto cambiato rispetto a quando ho cominciato io.
Ci sono paletti molto più stretti, per aspirare a certe posizioni servono titoli e competenze specifiche che purtroppo vengono prima delle qualità umane. Inutile nascondere che, sul piano delle risorse umane, affrontiamo una vera e propria crisi, intesa come carenza di persone in età lavorativa che scelgono di lavorare nel sociale; dove c’è una netta prevalenza di lavoratrici donne, contratti poco vantaggiosi, orari impegnativi. Infine mi pare che arriviamo da una stagione in cui il diritto al lavoro dignitoso e riconosciuto sia stato talora interpretato come diritto al reddito.
Insomma una congiuntura non semplice.
Per nulla. È difficile mantenere standard qualitativi elevati, se il bacino di lavoratori si restringe. Come troppo stretto è il numero chiuso in tanti corsi universitari che formano i professionisti del settore: in questo davvero c’è stata scarsa lungimiranza da parte dei governi e delle autorità accademiche. Come è possibile che da un lato siano sempre più stringenti le richieste negli appalti, e dall’altro sempre più difficile l’accesso alle competenze richieste? In uno scenario del genere, aumenta la conflittualità interna fra qualifiche e mansioni. L’operatore “tuttofare” di un tempo non esiste più e forse è un bene. Ma anche i paletti troppo rigidi su “chi può fare cosa” non aiutano a costruire gruppi di lavoro affiatati. Molti contratti di categoria sono scaduti, e il potere contrattuale del lavoratore è in crescita per via della cronica fame di personale che attanaglia non soltanto Frassati ma l’intero mondo della cooperazione. Eppure fatichiamo a trasformare tutto questo in una tensione positiva a fare rete e migliorare i rapporti per presentarsi più forti di fronte al committente, rivendicando compensi adeguati al livello del servizio richiesto.
I giovani lavoratori sono meno motivati di quelli del passato?
Non direi meno motivati, piuttosto con una scala di priorità diverse. Nel loro progetto di vita il lavoro occupa una parte assai meno rilevante di quanta non ne avesse quando ho cominciato io. C’è più incertezza esistenziale, nel male ma anche nel bene. Nel male perché si vedono affievolirsi le tutele del welfare e della previdenza. Nel bene perché si fanno esperienze più variegate, si sente meno l’urgenza di legarsi a un’attività o realtà professionale specifica. Questa minore e più tardiva identificazione nel lavoro, insieme al livello maggiore di specializzazione, è un dato critico che dobbiamo capire come volgere a nostro vantaggio. Sarebbe ingeneroso dire che i giovani, poiché seguono traiettorie diverse dalla nostra, valgono meno di quanto valessimo noi. Il mondo si trasforma e alzare un argine contro il cambiamento non è mai una buona idea. La nostra storia ci dice che è quando abbiamo saputo assecondare e cavalcare le novità abbiamo fatto la differenza. Per noi stessi e per tutte le persone toccate dal nostro lavoro.