
Basta un poco di zucchero? – Giulia Pedaci, Educatrice Professionale
Potremmo definire affettuosamente Giulia Pedaci la “Mary Poppins” della Cooperativa Frassati. Non perché salti dentro ai disegni sui marciapiedi, o prenda abitualmente il té sul soffitto. Ma perché il suo talento di educatrice è tale da farci sospettare che possieda le stesse doti magiche della geniale bambinaia dei romanzi di Pamela Lyndon Travers e del famoso film Disney. Così, abbiamo chiesto a Giulia di raccontarci come riesca a costruire rapporti solidi con ragazzi e ragazze di ogni età, e diventare un riferimento prezioso per tutte le équipe con cui si trova a lavorare.
Ci racconti come sei arrivata in Frassati? Forse planando con un ombrello in una giornata ventosa?
Non proprio! Ho fatto un percorso più standard… La prima esperienza è stata attraverso un tirocinio universitario. Dopo gli studi al liceo psico-pedagogico ho abbandonato l’idea iniziale di studiare psicologia perché il corso di educazione professionale mi è sembrato più concreto e adatto al mio modo di stare dentro le situazioni. “Da grande” non riuscivo a immaginarmi dietro una scrivania, ma davanti, pronta sviluppare rapporti di vicinanza con le persone.
In facoltà mi sono trovata subito bene, c’era un bell’equilibrio fra studio, pratica e lavoro di gruppo: un gruppo affiatato, che è rimasto poi negli anni punto di riferimento.
Al secondo anno di corso, nel 2008, ho iniziato un tirocinio di 250 ore alla comunità per minori di corso Trieste 65, a Moncalieri. E in pochissimo tempo ho capito che quello poteva essere il contesto più adatto a me.
Anche i tuoi primi colleghi di allora se ne sono accorti in fretta.
Sì, e sono incredibilmente grata a tutti e tutte loro per avermi dato fin da subito l’opportunità di crescere a livello professionale. In comunità ho imparato a trasformare la teoria che studiavo sui libri in pratiche relazionali quotidiane: inizialmente osservando il lavoro degli educatori esperti, poi piano piano prendendo parte alla vita di quel piccolo e fragile microcosmo.
Ricordo ancora bene l’emozione dei primi turni, o la prima volta che mi è stato chiesto di accompagnare a dormire un bimbo, leggendogli una favola. Sembrava tutto difficile, ma poi scoprivo che mi veniva abbastanza naturale. E quando quel bambino si è addormentato ho avuto una scarica di consapevolezza: “posso farlo, forse è davvero la mia strada”.
Quello educativo è un lavoro ricco di sfumature.
Esatto: non c’è mai nulla di scontato, perché ogni relazione è diversa dall’altra e destinata a cambiare nel tempo. Poi tutto avviene dentro un contesto dove le relazioni si intrecciano e conta molto l’affiatamento fra gli operatori, la loro capacità di darsi dei ruoli complementari.
Nella comunità di corso Trieste ho imparato ad avere fiducia… nella fiducia che gli altri mi davano. Lo stimolo dei colleghi era la molla che mi consentiva di mettermi alla prova: se loro ritenevano che potessi svolgere un certo compito, o entrare in rapporto con un ragazzo, allora valeva la pena tentare. Anche il saluto finale era stato ben preparato in modo che non fosse un distacco doloroso né per me né per i giovani ospiti.
E dopo questo saluto quanto tempo è passato prima che tornassi?
Pochissimo, anche se in realtà non sono tornata proprio lì, ma sono stata assunta nell’altra struttura per minori Frassati di Moncalieri, Leonardo 1. Cercavano personale per le sostituzioni, e a quell’epoca era possibile reclutare anche persone in formazione. Così ho finito gli studi sempre lavorando.
Molto faticoso?
Impegnativo, ma penso mi abbia dato una marcia in più, perché imparare e imparare a fare sono due momenti fondamentali della formazione, e poterli vivere in parallelo aiuta a rafforzarli entrambi.
Anche a Leonardo 1 ho incontrato colleghi e colleghe eccezionali, sia sul piano professionale che umano. E ho capito che la peculiarità di Frassati era quella di non creare competizione fra loro, ma valorizzare sempre il lavoro di squadra. Così, di nuovo, mi sono affidata. Ed è lì che è iniziata a emergere, credo, una caratteristica che mi porto dietro tutt’ora.
Sentiamo!
Sono una che ama stare “in prima linea”, con disponibilità alla relazione anche nelle situazioni più critiche. Questa è un’attitudine che velocizza l’apprendimento. Perché significa che ti “butti nella mischia”, ma non nel senso di fare scelte a caso, mettendo in pericolo la stabilità emotiva tua e delle persone con cui ti confronti. Intendo che, di fronte al “pericolo” che qualsiasi rapporto educativo comporta, accetti di “stare”, di metterti in gioco senza scappatoie.
Pensi che questa tua attitudine sia stata colta e valorizzata all’interno di Frassati?
Direi di sì. Anzi è sicuramente frutto, oltre che di un’inclinazione caratteriale, anche dell’“imprinting” che ho ricevuto nelle mie prime esperienze.
Devo molto al rapporto con gli adolescenti. I ragazzi e le ragazze che arrivano in comunità sono spesso reduci da conflitti terribili, dai quali hanno dovuto uscire “da soli”. Nel rapporto con gli operatori, che sono i nuovi adulti di riferimento “imposti” dalla situazione, tendono a riprodurre il conflitto e spingerlo molto avanti. Ma lo fanno perché si accorgono che il contesto “tiene” e la relazione educativa è sicura, si può rischiare e mettere alla prova.
La conflittualità, paradossalmente, è un segnale incoraggiante che l’educatore deve imparare a cogliere. Ci dice di ragazzi vivi, reattivi, che vogliono costruirsi, darsi una forma nel confronto e anche nello scontro col l’esterno. Purtroppo ho visto adolescenti più miti “perdersi” una volta usciti dalla comunità, perché non attrezzati a diventare autonomi.
Non basta “un poco di zucchero”, allora…
Eh no. Edulcorare non ha senso, neanche nel raccontare la professione. Lo zucchero uno prova sempre ad aggiungerlo, ma tante volte si “beve amaro” nei rapporti educativi. Per questo è importante esserci tagliati, non sceglierlo come ripiego.
Il passaggio dalla tutela della comunità al salto nella vita adulta ha segnato in un certo senso anche la tua esperienza professionale.
È vero. Dopo tanti anni nella comunità per minori sono stata chiamata a fare anche altro. Ho lavorato nel centro diurno per adolescenti di Moncalieri, poi al gruppo appartamento per giovani maggiorenni, fino ad arrivare al progetto Care Leavers, di cui mi occupo ora.
Vuoi raccontarci affinità e differenze di questi percorsi? In quale ti senti più a tuo agio?
Non vorrei fare una “classifica”, perché sono tutte esperienze che mi hanno coinvolta al cento per cento. E ognuna di queste è arrivata nel momento giusto: potrei dire di essere cresciuta insieme alle opportunità che Frassati mi dava, e imparare a coglierle è stato per me il segno e il senso di questa crescita professionale.
La comunità è un pezzo di cuore, tanto che ancora oggi conservo qualche ora dedicata ai turni e alle supervisioni. Perché quello rimane un punto di osservazione privilegiato: si vive letteralmente immersi dentro le dinamiche educative, in una sfera di intimità che rende possibile vedere, e dunque mostrare ai ragazzi, le loro potenzialità e risorse.
Il centro diurno mette invece in gioco la componente più creativa. Si lavora su tempi diversi e con un coinvolgimento meno profondo: c’è spazio per impostare i rapporti in chiave anche ludica, si impara un altro stile educativo che richiede di “dosare” l’intervento per non andare oltre ciò che quel contesto richiede.
Il lavoro coi giovani adulti è arrivato quando anch’io mi sentivo ormai adulta nella professione. È una dimensione ancora nuova, perché prevede un rapporto più libero e orientato all’autonomia. Un bell’esercizio di “giusta distanza”, di rispetto dei tempi e delle caratteristiche dell’altro, sempre esposti al senso di impotenza e frustrazione. C’è però anche una forma di continuità, perché molti dei ragazzi e delle ragazze seguiti da Care Leavers arrivano da percorsi di comunità: talvolta ci si conosce già, ma anche incontrandosi per la prima volta ci si ri-conosce, perché ognuno è abituato a rapportarsi col ruolo dell’altro.
E come descriveresti la tua relazione con colleghi e colleghe nei vari contesti?
È stato come ho già detto uno dei punti di forza del mio lavoro, e fra i principali motori di crescita professionale. E non penso soltanto all’operatività quotidiana! C’è anche tutta la parte di supervisione, a cui Frassati dà molto peso, che è fondamentale per creare le giuste sinergie e vedere le situazioni, i ragazzi e le ragazze, sotto punti di vista molteplici, che ce li restituiscono nella loro complessità di persone. All’inizio io proprio mi abbeveravo dell’esperienza dei colleghi più esperti, ricordo che facevo attenzione persino a come cambiava il loro tono di voce quando parlavano di qualcuno o con qualcuno.
E poi c’è la componente che può sembrare meno attrattiva ma è fondamentale, quella della scrittura e correzione dei progetti educativi. In questo Frassati ha una grande tradizione, anche per quanto riguarda i diari e i quaderni operativi di comunità: tutte cose che si continuano a fare anche adesso che gli appalti hanno meno risorse di tempo dedicate. Perché scrivere, va detto, porta via tempo e concentrazione. È difficile “stare” dentro la relazione educativa, e poi prendersi “il lusso” di rielaborarla attraverso la scrittura. Eppure è qualcosa che fa la differenza! Consente ai colleghi un confronto costante, a più livelli, lascia una traccia del lavoro svolto, offre indicazioni per i progetti futuri.
Piena sintonia insomma. Per questo il tuo “primo lavoro” è ancora oggi quello giusto?
Certo. E per lo stesso motivo una volta assunta a tempo indeterminato ho deciso di diventare anche socia della Cooperativa.
Non vorrei però dare l’idea di essere una persona abitudinaria e che teme i cambiamenti! Anzi, di cambiamenti in questi anni ce ne sono stati e sono grata a Frassati per le opportunità sempre nuove che mi ha offerto. Sono grata anche a me stessa di averle accolte con entusiasmo… Ecco, forse il frutto della mia maturità professionale è questo: oggi sono capace di dirmi ogni tanto “brava Giulia!”.
Anche se ormai è chiaro quanto ami il tuo lavoro, vuoi rivelarci se ha dei risvolti critici o talvolta addirittura spiacevoli?
I primi anni in comunità sono stati per molti versi totalizzanti. Mi portavo sempre dietro, e soprattutto “dentro”, quello che accadeva sul lavoro. Era difficile staccare, emotivamente, e forse la vita privata ne ha risentito, anche se non credo di aver tolto nulla alle persone che mi erano accanto come familiari o amici.
Quello di educatore professionale è un mestiere con delle competenze ben precise. Ma è anche un ruolo che mette molto in gioco “chi sei”, la tua personalità. Alla lunga, non riuscire a separare le due dimensioni di vita – professionale e privata – può essere pericoloso: crea fatica quando non il famoso “burn-out”. A me pare a un certo punto di aver “trovato la quadra”, e soprattutto adesso, con il progetto Care Leavers, mi sento di vivere con maggiore equilibrio e rilassatezza.
Nostalgia della comunità?
Sempre! Anche perché la lunga esperienza mi dava la coscienza di incidere in quel contesto in maniera ormai autorevole. Come ad esempio è accaduto col ritorno alla comunità di corso Trieste, in un momento di crisi, per riportare energia all’équipe e orientarla in un cambiamento necessario di visione: una grande responsabilità che la Cooperativa mi ha affidato e spero di aver svolto al meglio.
Ma oggi il mio tempo si è ridisegnato, e va bene così. Riesco addirittura a godermi senza sensi di colpa le giornate libere!
Coi ragazzi e le ragazze di Care Leavers il lavoro è diverso. Mentre in comunità si sta sempre un passo avanti, perché coi minori si agisce in un’ottica di tutela, con loro ho imparato a stare un passo indietro, pronta a rispettare i fallimenti come a esplorare le possibilità. Si ragiona infatti in termini di autonomia, per promuovere il protagonismo di giovani adulti in crescita.
Un’altra cosa che mi fa sentire orgogliosa è che sono stata coinvolta in questo progetto fin dalla fase di scrittura insieme al Comune. È un pochino “figlio mio” e quindi è normale che me lo coccoli… Adesso poi ho il supporto e il confronto con altri due colleghi, e questo è di grande aiuto perché riproduce quella molteplicità di sguardo che come dicevamo prima è irrinunciabile a livello educativo.
Mi sento di avere maggiore profondità di visione, di poter guardare a un servizio o progetto in un’ottica più ampia, consapevole anche dei suoi aspetti tecnici. Ma non chiedetemi di lasciare l’operatività quotidiana! Dietro a una scrivania continuo a non vedermici. Neanche adesso che “grande” lo sono diventata.
Consiglieresti a un giovane educatore di cercare lavoro in Frassati?
Ci sono ancora dei dubbi? Ovviamente sì. Anzi gli direi proprio: “vieni, che abbiamo bisogno di te!”. Perché i professionisti giovani portano nuove energie, nuove prospettive, nuovi stili. Fanno da collante fra i colleghi con più esperienza, ma maggiore gap generazionale, e gli utenti dei servizi educativi.
E gli direi nello stesso tempo: “anche tu hai bisogno di Frassati! Troverai una palestra incredibile di formazione, sostegno professionale, strumenti, competenze pratiche e teoriche. Insomma una “gavetta” coi fiocchi. Che aspetti?”.